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  • Dietro al terzo mandato: l’egemonia nel centrodestra passa per il Nord

    Nelle ultime settimane, il dibattito nei media ha dato grande attenzione al tema del terzo mandato per i presidenti di Regione. Una questione apparentemente personalistica, legata alle figure di Zaia in Veneto e De Luca in Campania, ma la cui delicatezza viene da altro, in particolare nel centrodestra. La discussione sul terzo mandato nasconde infatti la battaglia per il Nord, e per il consolidamento (non solo in termini elettorali, ma anche di classe dirigente amministrativa) della leadership di Fratelli d’Italia sulla coalizione.

    Oltre i personalismi

    A Giorgia Meloni serve il Nord. È lì che ha fatto l’exploit alle elezioni politiche del 2022, sfondando il 30% in alcune Regioni. Ed è oggi quello il campo di battaglia per consolidare la sua leadership nel centrodestra. Silvio Berlusconi non aveva bisogno di tutto questo; le sue enormi risorse economiche e mediatiche, che metteva a disposizione degli alleati, lo hanno mantenuto a lungo il naturale e incontrastato baricentro del centrodestra. Ma dopo il Cavaliere, ogni cambiamento alla guida della coalizione ha creato tensioni, e non sempre a causa di litigi e personalismi. In politica infatti la maggior parte degli scontri sono spesso innescati da questioni strutturali, come ad esempio i rapporti di forza sul territorio. Lo testimonia il dibattito in corso sul terzo mandato ai presidenti di Regione. La Lega, che si batte perché venga introdotto, ha già presentato due volte un emendamento: la prima, lo scorso 22 febbraio, in Commissione affari costituzionali; la seconda, il 13 marzo, in Aula. Esito: bocciato in entrambe, e maggioranza spaccata con i voti contrari di Fratelli d’Italia e Forza Italia. La questione va ben oltre alle ricandidature dei presidenti di Regione leghisti. La vera partita di Meloni si gioca nella conquista di questi territori, nessuno dei quali ancora governato da un esponente di Fratelli d’Italia. Una sfida, solo in apparenza locale, diventa così di stampo nazionale. Questo perché non è proponibile che un partito come Fratelli d’Italia, che vuole essere il baricentro del centrodestra, non governi nessuna regione del Nord, il cuore economico del Paese.

    Rapporti di forza datati

    Come visibile nella mappa qui sopra riportata, Fratelli d’Italia conta su 3 governatori, meno di Lega e Forza Italia, che alle ultime politiche hanno preso un terzo dei suoi voti. Spicca l’assenza di presidenti di Regione di Fdi al di sopra delle Marche. In quest’area è la Lega di Salvini ad avere in mano Lombardia, Veneto, Friuli Venezia-Giulia e la Provincia Autonoma di Trento. Forza Italia ha il Piemonte. Persino Noi moderati, un partito accreditato dai sondaggi intorno all’1% , guida la Liguria con Giovanni Toti. Sono rapporti di forza ormai datati, che Fratelli d’Italia vuole sovvertire. La competizione diretta, inevitabilmente, è con la Lega. Forza Italia, infatti, è sempre più radicata al Sud, dove veleggia su doppie cifre. Meloni deve quindi valicare il Po, specie nelle roccaforti leghiste di Lombardia, Veneto e Friuli-Venezia Giulia. Anche perché, per certi versi, gli elettori hanno già anticipato un possibile cambio di orientamento all’interno del centrodestra: qui - rispetto alle politiche del 2018 - Fdi ha aumentato di sette volte il proprio consenso, mentre la Lega l’ha più che dimezzato.

    Da verde a blu: la mappa che cambia

    Nelle tre regioni sopracitate, Fratelli d’Italia alle politiche è diventato il primo partito nel 96% dei Comuni, ovvero 2.357 su 2.450. Lo ha fatto sostituendo nella stragrande maggioranza dei casi (2.107) proprio la Lega, su cui ha annullato e ribaltato a proprio favore il distacco patito nel 2018, con un cambiamento medio di 48 punti di distacco in ciascun comune. In un piccolo paese del vicentino, Foza, c’è stata l’inversione di voti più clamorosa: un divario di quasi 80 punti tra i due partiti nelle due elezioni. Significa che Fdi è salita dal 4 al 47% mentre la Lega è scesa dal 61 al 24,5%. L’unico Comune dove il partito di Meloni era già in precedenza il più votato è Calalzo di Cadore, in provincia di Belluno, guidato dal sindaco e senatore Luca De Carlo di Fdi, lanciato non a caso tra i papabili eredi di Zaia.

    Nel Nord pare quindi stia avvenendo un fenomeno di sostituzione, quello che la scienza politica chiama secular realignment (Key 1959). Si ripeterebbe qualcosa già successo all’inizio degli anni Novanta, quando l’allora zona bianca - pluridecennale feudo democristiano con epicentro il Veneto (Galli 1968, Corbetta et al. 1988) - si trasformò in quella che Ilvo Diamanti avrebbe chiamato zona verde (Diamanti 2003), sotto i colpi della giovane Lega di Umberto Bossi. Un partito che era stato capace di egemonizzare politicamente quell’area caratterizzata da un solido strato valoriale cattolico di tradizione secolare, e che oggi vede in crisi il proprio rapporto con la Lega. Fratelli d’Italia si candida quindi a provare a ereditare questo ruolo egemonico? Potrebbe essere uno scenario non peregrino, leggibile anche alla luce delle posizioni moralmente conservatrici (ma tutto sommato moderate) espresse da Meloni negli ultimi anni. È quindi un possibile scenario; anche se va ricordato che i risultati elettorali degli ultimi anni hanno registrato tassi di volatilità record: sempre più elettori cambiano scelta tra un’elezione e l’altra.

    Il cambiamento dei rapporti di forza tra alleati è visibile anche alle elezioni regionali del 2023. In queste tornate, Fratelli d’Italia si è confermato primo partito in Lombardia, ed è stato a un passo dal diventarlo anche in Friuli-Venezia Giulia: se non consideriamo la lista del Presidente Fedriga, il partito di Meloni e la Lega hanno ottenuto percentuali di voto simili, il 18% il primo e il 19% il secondo. Tuttavia il Carroccio, anche al netto dei consensi ottenuti dalle liste dei Presidenti, ha accresciuto la propria percentuale di voti rispetto alle politiche del 2022, a dimostrazione di come, nelle sue roccaforti, vanti tuttora una classe dirigente forte e radicata.

    Dove sono le roccaforti

    Ma la geografia non va analizzata solo in termini regionali: è infatti molto rilevante anche la dimensione centro-periferia (Lipset e Rokkan 1967) all’interno della regione. Un criterio per mostrarne la rilevanza è quello della dimensione demografica dei comuni. E sia Lega che FdI raggiungono risultati migliori nei Comuni con meno abitanti e quindi (quasi sempre) più periferici, in particolare quelli al di sotto dei 5.000. Quando cresce la popolazione, succede il contrario: arretrano, specie nelle città con oltre 100.000 abitanti, dove scendono addirittura di 10 punti rispetto ai micro Comuni. Per la Lega è un dato in linea con il passato, ma per il partito di Meloni è una novità assoluta, pensando alla tradizione elettorale della destra, storicamente caratterizzata da maggiori successi nelle città, soprattutto al Sud. Un dato già chiaro per il Movimento Sociale Italiano, e che portò alle politiche del 1996 Alleanza Nazionale a diventare primo partito in tante grandi città del Sud. Oggi è esattamente l’opposto. E il quadro diventa ancora più chiaro quando misuriamo la perifericità del comune in modo ancora più preciso, misurando per ogni comune non solo la popolazione, ma la distanza geografica dai centri erogatori di servizi. Con “centri” intendiamo le 34 città italiane - non per forza capoluoghi di provincia - che hanno un ateneo universitario, un ospedale con Dea di secondo livello (Dipartimento emergenza e accettazione) e un aeroporto o una stazione dell’alta velocità. È una definizione coniata e sviluppata nel Capitolo VI di “Un polo solo”, il volume edito dal Mulino - pubblicato poche settimane fa - con le analisi del CISE sulle ultime elezioni politiche. Lo studio dimostra come chi vive in un determinato luogo, a parità di ogni altra condizione, abbia una più alta probabilità di votare in un certo modo. Il territorio, da solo, riesce quindi a spiegare le scelte elettorali. Il contesto ideale per il centrodestra, dunque, è in questi piccoli comuni marginali del Nord, caratterizzati da livelli di istruzione e reddito inferiori alla media e da una consistente presenza di extracomunitari.

    Le scelte degli elettori

    Un possibile processo di secular realignment, ancora, è visibile in dettaglio nei flussi di voto tra le politiche del 2018 e del 2022. Più della metà di chi prima aveva votato Lega, ha poi scelto Fdi. Il partito di Salvini ha riconfermato solo 1 elettore su 3. Qualcosa di diverso è avvenuto in Forza Italia: meno del 30% dei suoi elettori del 2018 ha votato Meloni nel 2022. Una percentuale appena maggiore, però, si è astenuta, preferendo quindi non ricollocarsi tra gli altri due partiti della coalizione.

    Un ultimo dato che vogliamo condividere riguarda la sovrapposizione degli elettorati dei partiti nelle tre Regioni del Nord. I dati provengono da un’indagine campionaria condotta da Itanes alla vigilia delle elezioni del 2022. La figura in basso mostra la sovrapposizione dell’elettorato potenziale dei maggiori partiti attraverso i diagrammi di Eulero-Venn. Dal diagramma si coglie molto bene la differenza tra centrodestra e centrosinistra. A destra la competizione risulta particolarmente serrata. Gli elettori di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia si sovrappongono largamente e sono in buona parte disposti a trasferirsi dall’uno all’altro. A sinistra, almeno in questa zona del Paese, non è così. Fratelli d’Italia sembra in grado di interessare un bacino di elettori più ampio rispetto agli altri partiti della coalizione: 21%, contro il 15 e il 10% di Lega e Forza Italia. Tuttavia, alle elezioni politiche del 2022 il partito di Meloni aveva già raggiunto il 20% dell’elettorato (contro il 9% della Lega e il 5% di Forza Italia). Risulta più ridotta, pertanto, la possibilità per Fratelli d’Italia di un’ulteriore significativa espansione.

    I numeri a fianco dell’immagine ci aiutano anche a comprendere in che misura gli elettorati dei partiti di centrodestra si sovrappongono: Fratelli d’Italia può contare su un bacino esclusivo, vale a dire uno zoccolo duro di elettori che difficilmente voteranno per altri, pari a circa un terzo del proprio peso. Molti meno sono invece gli elettori esclusivi del partito di Salvini (neppure un quinto del totale) e quelli del partito guidato da Tajani (circa un elettore su dieci).

    Europee: cosa conviene a Meloni?

    In conclusione, quindi, dietro la battaglia per il terzo mandato c’è la necessità per Fratelli d’Italia di dare una risposta alla domanda di rappresentanza che viene dal Nord. Risposta che deve arrivare con proprie candidature di peso e successo, capaci di aprire la strada al consolidamento di una classe dirigente amministrativa anche in quelle Regioni: condizione indispensabile perché Fdi possa stabilizzare in modo inequivocabile la propria leadership nel centrodestra (non potendo contare, lo ricordiamo, sulle risorse un tempo a disposizione di Berlusconi). Già, ma nel frattempo ci sono le elezioni europee. E quale risultato potrebbe aiutare questo disegno di Fratelli d’Italia? A conti fatti, forse a Meloni farebbe comodo una Lega che regga nel suo complesso, capace di raggiungere un risultato simile alle politiche (8,8%), superiore a Forza Italia e con un voto territoriale che non accusi enormi perdite al Nord. Salvini, che pure ha fissato l’obiettivo minimo al 10%, resisterebbe così alla guida di una Lega cui ha dato una strategia di partito di destra radicale “nazionale”, che per certi versi prende atto di una rinuncia al ruolo di “partito del Nord”. E con Meloni capace di occupare il centro politico della coalizione, una condizione ideale per governare. Diverso sarebbe invece l’impatto di una rovinosa sconfitta leghista: se il partito di via Bellerio peggiorasse il risultato delle politiche, subendo al contempo il sorpasso di Forza Italia, la segreteria di Salvini rischierebbe di arrivare al capolinea. A quel punto, potrebbe tornare in voga l’idea del partito del Nord, guidato magari da Zaia o Fedriga. Per Meloni sarebbe un problema, perché chi governa oggi quelle Regioni si rafforzerebbe per non cedere il passo a Fdi. Coincidenze, e sorprese, della politica: Meloni e Salvini - alleati, eppure tra loro in perenne competizione - sperano, in fondo, la stessa cosa.


    Riferimenti bibliografici

    Corbetta, P., Parisi A., Schadee, H. (1998), Elezioni in Italia. Struttura e tipologia delle consultazioni politiche, Bologna, Il Mulino.

    Diamanti, I. (2003), Bianco, rosso, verde... e azzurro. Mape e colori dell'Italia politica, Bologna, Il Mulino.

    Diamanti, I. e Riccamboni, G. (1992), La parabola del voto bianco, Venezia, Neri Pozza.

    Emanuele, V. (2011), Riscoprire il territorio: dimensione demografica dei comuni e comportamento elettorale in Italia, in «Meridiana», n. 70 pp. 115-148.

    Galli, G. (1968), Il comportamento elettorale in Italia, Bologna, Il Mulino.

    Lipset, S.M. e Rokkan, S. (1967), Clevages structures, party systems and voter alignments: An Introduction, in Lipset, S.M. e Rokkan, S. (a cura di), Party systems and voter alignments: cross-national perspectives. New York, The Free Press

    Key, V. O. Jr. (1959), Secular Realignment and the Party System, The Journal of Politics. Vol. 21, No. 2 (May, 1959), pp. 198-210

  • Perché Trump può vincere ancora

    Se si votasse oggi è molto probabile che Donald Trump diventerebbe di nuovo presidente degli Stati Uniti. Un caso unico nella storia americana: nessuno è mai tornato alla Casa Bianca quattro anni dopo averla persa. Trump sarebbe l’unico  presidente rieletto dopo non essere stato riconfermato. All’indomani dell’assalto al Congresso il 6 Gennaio 2021 chi avrebbe potuto immaginare un esito del genere?  Eppure, salvo soprese dell’ultima ora che sanno molto di wishful thinking, le elezioni del Novembre 2024 saranno una replica di quelle del Novembre 2020. E questo nonostante l’età di Biden e i processi di Trump. Perché?  La risposta va cercata esplorando due dimensioni di analisi: quella istituzionale e quella elettorale


    Come si vincono le elezioni americane: la roulette del collegio elettorale

    Gli Usa sono un sistema presidenziale ma a differenza di altri sistemi presidenziali gli elettori non scelgono direttamente il presidente. È all’interno del collegio elettorale che si decide  l’elezione. I 538 seggi di questo collegio sono divisi tra i 50 stati più il distretto di Columbia sostanzialmente in base alla popolazione. L’elezione avviene stato per stato. Tranne che nel Nebraska e nel Maine, in ciascuno stato tutti i seggi vengono assegnati al candidato che ottiene un voto più degli altri. Vince chi prende 270 seggi. Si può diventare presidente, come è stato il caso di Trump nel 2016 e di Bush nel 2000, senza avere la maggioranza del voto popolare ma solo  la maggioranza dei voti nel collegio elettorale. Dunque è  il collegio l’istituzione decisiva per l’elezione del presidente. È qui dentro che va cercata una parte della spiegazione della vittoria di Trump nel 2016, della sua sconfitta nel 2020 e di una sua possibile vittoria nel 2024. Ma all’interno del collegio non tutti gli stati sono decisivi. 

    Una delle caratteristiche rilevanti della politica americana è che, nel tempo e soprattutto negli ultimi trenta anni, il partito democratico e quello repubblicano hanno messo solidi radici in zone diverse del paese. A livello di collegio elettorale questo vuol dire che molti stati sono semplicemente non competitivi. In molti stati prevalgono i repubblicani, in altri i democratici. Poi ci sono pochi stati dove non prevale nessuno: sono gli ‘swing states’, gli stati ballerini. Come si vede nella mappa delle ultime quattro elezioni presidenziali gli stati della costa occidentale e quelli del Nord-Est (gli stati del New England) sono gli stati blu, il colore del partito democratico. Gli stati del Sud e la grande maggioranza di quelli che si collocano tra il fiume Mississippi e la costa occidentale sono rossi, il colore del partito repubblicano. Negli ultimi anni  questa suddivisione è rimasta straordinariamente stabile. I cambiamenti sono stati pochi. A ovest del Mississippi, solo l’Arizona ha cambiato colore nelle ultime quattro elezioni. Nel Sud, la Florida è passata nel campo degli stati rossi mentre in Georgia e in North Carolina il partito democratico ha cominciato ad erodere il vantaggio storico dei repubblicani. Non è un caso che Biden abbia vinto in Georgia nel 2020, ma per pochissimi voti

    Dal conteggio restano fuori gli stati di quella che una volta era la rust belt, il cuore industriale del paese. Sono gli stati del Mid-West: Pennsylvania, Ohio, Michigan, Wisconsin, Minnesota, Indiana, Illinois. Una volta erano una delle roccaforti del partito democratico. Oggi non è più così. Buona parte della classe operaia ha abbandonato il partito democratico. Non diversamente da quanto è successo in Europa i ceti colpiti dalla globalizzazione e dalla digitalizzazione si sono spostati a destra. Oggi solo il Minnesota e l’Illinois possono essere considerati stati democratici. Gli altri o sono diventati stati rossi,  come l’Ohio e l’Indiana, o sono diventati stati ballerini come Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.

    Ed è proprio in questi tre stati che si sono decise le elezioni del 2016 a favore di Trump e quelle del 2020 a favore di Biden. Se Hillary Clinton avesse vinto in questi tre stati sarebbe diventata presidente. Se Biden avesse perso in questi tre stati, pur vincendo in Georgia e Arizona, non sarebbe diventato presidente. Molto probabilmente chi vincerà in questi tre stati sarà presidente il prossimo novembre.

    È tale l’equilibrio tra democratici e repubblicani all’interno del collegio elettorale che il suo funzionamento è diventato una specie di roulette. Infatti le ultime due elezioni sono state decise da pochissimi voti. Nel 2016 Trump ha vinto in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania con uno scarto di meno dell’1%. Complessivamente sono stati 77.744 voti su 136,6 milioni a fare la differenza. Nel 2020 circa 44.000 (su oltre 150 milioni) in Wisconsin, Arizona e Georgia hanno deciso l’elezione a favore di Biden. Senza questi voti, e quindi senza questi stati, Biden non sarebbe oggi alla Casa Bianca. Di questi tempi la pallina della roulette è  la metafora che più si addice alle elezioni americane. O per dirla in inglese, sono ‘the roll of the dice’.

    Donald Trump non è un accidente della storia   

    Il collegio elettorale fa parte della dimensione istituzionale della politica americana. Il suo funzionamento spiega molto di quanto è successo negli USA negli ultimi anni ma non spiega tutto. Tra l’altro ci sono altri meccanismi istituzionali che andrebbero presi in considerazione, dal ruolo delle primarie a quello del denaro, dei media , delle lobbies e così via. Ma è la dimensione elettorale che ci interessa qui. E questa si riduce a una domanda che è centrale al nostro ragionamento: perché 62,9 milioni di cittadini americani hanno votato Trump nel 2016, 74,2 milioni lo hanno votato nel 2020 e più o meno lo stesso numero lo voterà nel 2024 ?  Che Trump vinca o perda è ovviamente importante, ma è altrettanto importante capire perché tanti milioni di americani hanno votato e continuano a votare per una figura politica così diversa, così poco convenzionale, così straordinaria nel senso letterale del termine.

    Trump non è un accidente della storia. È il risultato di un mutamento profondo della economia e della società americana. Negli ultimi trenta anni si sono manifestati diversi segnali di questo mutamento. Dal 19% dei voti conquistati da Ross Perot alle presidenziali del 1992, alla formazione da parte di Perot del Partito della Riforma con cui ha flirtato lo stesso Trump , alla elezione di Jesse Ventura, un lottatore professionista, a governatore del Minnesota con l’etichetta del partito di Perot, all’ascesa di Newt Gingrich alla presidenza della Camera e soprattutto all’organizzazione del Tea Party.

    Il fenomeno Trump è il prodotto di questo mutamento, oltre che del funzionamento dei meccanismi istituzionali peculiari del sistema politico USA e delle contingenze del momento. Ma in che cosa consiste  questo mutamento , a cosa è dovuto e quali effetti ha prodotto? La questione  non riguarda solo gli Usa. In Europa, in un contesto istituzionale completamente diverso, è avvenuta la stessa cosa. In sintesi, e prima di approfondire, si può affermare che sono cambiate le basi della politica democratica. E questo lo si deve a due fattori principali: la globalizzazione e la digitalizzazione. L’apertura dei mercati e soprattutto la rivoluzione tecnologica hanno trasformato la struttura del mercato del lavoro e in generale dell’economia americana, hanno prodotto una rilevante redistribuzione del reddito con un forte aumento  delle disuguaglianze e un indebolimento della classe media. A questo si deve aggiungere la radicale trasformazione della comunicazione, ivi compresa quella politica. Internet ha cambiato il mondo producendo effetti che a differenza di quelli prodotti dalla globalizzazione non sono stati contestati. La rivoluzione non è finita. Continua con una velocità tale da rendere difficile la gestione dei suoi effetti nel breve periodo. Non c’è dubbio che i nuovi sviluppi nel campo della intelligenza artificiale sono destinati a produrre altri effetti dirompenti sul mercato del lavoro e nella distribuzione del reddito.

    I grafici che presentiamo qui danno un’idea parziale di questo mutamento. Fanno vedere la trasformazione del mercato del lavoro nel quale sono cresciuti i posti di lavoro che richiedono competenze elevate e quelli che richiedono basse o scarse, e sono spariti quelli che richiedono competenze di medio livello. In questa trasformazione è la classe media a pagare il prezzo più elevato del cambiamento. Quella classe su cui da sempre si è basata la stabilità del sistema politico americano e non solo. Allo stesso modo vanno letti i dati sulla dissociazione tra l’aumento della produttività e quello del reddito delle famiglie. Non tutti hanno beneficiato allo stesso modo dalla rivoluzione tecnologica. Per di più, non solo i ceti bassi e medi hanno guadagnato relativamente meno ma il loro potere d’acquisto, e la loro capacità di risparmio, si sono ridotti perché il prezzo di molti beni e servizi, come la casa, la scuola e l’assistenza sanitaria, sono aumentati più dei loro redditi.

    La polarizzazione del mercato del lavoro: cambiamento in punti percentuali  dell’impiego complessivo di diverse tipologie di lavori

    Un cambiamento di questa entità non poteva restare senza effetti politici. Questi si sono progressivamente manifestati come risentimento, paura  e infine rigetto delle classi dirigenti tradizionali  che si è tradotto in rabbia e  voglia di rottura. Il dato sulla crescente sfiducia nel governo parla chiaro. Il fenomeno Trump nasce in questo contesto e in questo clima. I suoi elettori vogliono tornare ad avere ‘un posto a tavola’.

    Ma chi sono gli elettori di Trump ? Il nocciolo duro, inattaccabile da chiunque come si è visto nelle recenti primarie del partito repubblicano, sono i membri di quella specie di setta che va sotto il nome di MAGA, i cultori del Make American Great Again. Sono questi, in gran parte eredi del Tea Party, che gli hanno fatto vincere le primarie nel 2016, nel 2020 e nel 2024. Ma solo con questi elettori Trump non avrebbe vinto la presidenza nel 2016 e non potrebbe sperare di vincerla questo novembre. Accanto ai MAGA ci sono gli altri.

    La coalizione elettorale di Trump non è una coalizione di alieni, come a volte si legge su certi media. Non è fatta solo di Maga, di minatori del West Virginia, di lavoratori dell’acciaio dell’Indiana, di operai del Michigan o di agricoltori del Kansas. Come si vede nel grafico successivo si differenzia certamente da quella di Biden, ma è comunque un caleidoscopio della società americana. È vero che ci sono meno giovani, meno persone con un livello di istruzione universitaria, meno abitanti dei centri urbani e dei quartieri suburbani, meno elettori appartenenti a minoranze etniche. Ed è altrettanto vero che ci sono più bianchi e più elettori anziani. Ma è anche  vero, come risulta dal sondaggio del Pew Research Center fatto a gennaio di questo anno, che il 42% dei laureati, il 38 % degli ispanici e anche il 35% dei giovani tra i 18 e i 29 anni  dichiara di preferire Trump a Biden.

    È una coalizione diversificata tenuta insieme dalla voglia di cambiamento che ognuna delle sue componenti declina in modo diverso. C’è chi vuole la riduzione delle tasse, chi l’abolizione dell’aborto, chi la chiusura delle frontiere, chi l’aumento dei dazi doganali, chi il ritorno ad una posizione isolazionista in politica estera, chi la revisione dei programmi scolastici nelle scuole pubbliche e così via. Tanti di questi elettori si comportano in modo da votare solo e soltanto in base alla questione che gli sta più a cuore. Sono elettori lessicografici. Gli importa una cosa e non tengono conto della posizione dei candidati su altre questioni per loro meno importanti. E vedono in Trump il leader più credibile per dare una risposta a quello che gli sta veramente a cuore. In questo Trump è stato e continua ad essere molto abile.

    Il cambiamento della società americana è un processo di lungo periodo. Trump è riuscito a vincere le elezioni del 2016 perché è stato quello che ne ha capito prima e meglio la portata e gli effetti. Ma non avrebbe vinto quelle elezioni e non potrebbe vincere a novembre se accanto ai fattori di lungo periodo che hanno plasmato un contesto a lui favorevole non si associano le contingenze del momento. Infatti è dalla interazione tra fattori strutturali e fattori contingenti che scaturiscono i risultati elettorali. Tra questi ultimi la personalità dei candidati in competizione ha naturalmente un ruolo rilevante. Nel 2016 è stata Hillary Clinton con i suoi limiti personali e i suoi errori in campagna elettorale a favorire la vittoria di Trump. Questo anno è Biden a prendere il posto della Clinton.

    I problemi di Biden

    A dispetto dei meriti che molti gli attribuiscono Joe Biden è uno dei presidenti più impopolari della storia americana. Oggi, come di vede nel grafico sopra solo il 33% degli elettori approva il suo operato. Non è sempre stato così. Al momento della sua inaugurazione a gennaio 2021 il suo gradimento era sopra il 50%. Ad agosto di quell’anno è precipitato sotto quella soglia  e lì è rimasto fino ad oggi. Quel che è peggio per lui è che anche gli afroamericani, gli ispanici e i giovani, che sono componenti essenziali della sua base elettorale, esprimono un giudizio negativo. L’inizio della discesa coincide con la disastrosa ritirata delle ultime truppe USA da Kabul che a tanti elettori ha ricordato un altro evento drammatico, e umiliante e cioè la fuga da Saigon. Ma questo evento non spiega a fondo un livello di gradimento così persistentemente basso. Ci sono altri fattori in gioco.

    Sono tre i maggiori problemi di Biden: l’economia, l’immigrazione e l’età. L’economia rappresenta un paradosso. Guardando alla crescita del PIL, al tasso di disoccupazione che è ai minimi storici,  ai salari che dopo anni di stagnazione hanno ripreso a crescere la conclusione dovrebbe essere che lo stato della economia giochi a favore del presidente uscente. E invece non è così. Da un recente sondaggio della CBS risulta che solo il 38% degli americani pensa che oggi l’economia vada bene mentre il 65% pensa che andasse bene ai tempi di Trump. Perché il 59% degli intervistati giudica negativamente lo stato dell’economia nonostante il fatto che i dati oggettivi dicono il contrario? 

    In realtà il paradosso è solo apparente. Infatti una cosa sono i dati macroeconomici e una altra cosa sono i dati micro che interessano gli elettori che fanno la spesa. Biden paga lo scotto di una inflazione che ha fatto lievitare il prezzo delle uova, del bacon, della benzina tanto per citare alcuni dei beni che incidono sul tenore di vita delle famiglie americane. È vero che l’inflazione è scesa negli ultimi mesi  ma i prezzi no.  Non solo. Gli americani sono un popolo di debitori. La crescita dei tassi di interesse negli anni della amministrazione Biden pesa come un macigno sulle rate dei mutui ipotecari e sugli interessi pagati sui debiti contratti con le carte di credito. La discesa del costo del denaro annunciata dalla Federal Reserve per i prossimi mesi dovrebbe favorire Biden ma per ora agli annunci non seguiti i tagli ai tassi e gli ultimi dati sull’andamento della  inflazione non sono positivi.

    L’immigrazione è un altro grosso problema per Biden. Dopo  l’economia è questa la questione che sta più a cuore agli elettori, anche perché negli ultimi due anni il flusso di immigrati al confine con il Messico è molto aumentato. E anche su questo tema Biden non è ben posizionato rispetto a Trump. È di nuovo il sondaggio del Pew Research Center a rivelare che non solo l’89% degli elettori repubblicani pensano che Biden abbia gestito male il fenomeno migratorio,  ma la stessa cosa dice anche il 73 % degli elettori democratici.

    E poi c’è la questione dell’età del presidente. Il fatto è che, indipendentemente dal suo effettivo stato di salute che solo lui e i suoi medici conoscono, è largamente diffusa l’opinione che Biden  sia troppo vecchio. Non è che Trump sia molto più giovane, ma la percezione  è che stia meglio di Biden, che se fosse rieletto sarebbe il più anziano presidente nella storia del paese. Su questo i dati dell’ultimo sondaggio del New York Times sono impietosi. Il 45 % degli elettori pensa che Biden sia addirittura incapace di fare il presidente contro il 19% che pensa la stessa cosa  di Trump. Non sono solo gli elettori repubblicani a pensarlo, ma anche una buona fetta di quelli democratici. Insomma il problema esiste e persisterà durante tutta la campagna elettorale. Sarà interessante vedere come Biden lo affronterà. Reagan a suo tempo ci riuscì brillantemente, ma anche lui era più giovane di Biden.

    Non tutto è ancora deciso

    I dati che abbiamo presentato non lasciano dubbi sul fatto che oggi Trump sia in netto vantaggio nella corsa alla presidenza. Lo è anche negli stati dove si giocherà veramente l’elezione. E così torniamo da dove siamo partiti, e cioè al collegio elettorale. Oltre a Michigan, Wisconsin e Pennsylvania alla luce delle tendenze degli ultimi anni possiamo includere nella categoria degli stati ballerini anche Nevada, Arizona, Georgia e North Carolina. Gli ultimi sondaggi disponibili, pubblicati da Real Clear Politics,  fanno vedere che solo in Pennsylvania Biden è in vantaggio. Brutta notizia per lui, ma in fondo questo dato conta relativamente  poco in questo momento,  visto che  la campagna elettorale è appena iniziata. E in un una situazione di sostanziale equilibrio la campagna elettorale può fare la differenza. Soprattutto se Biden riuscirà a mobilitare quei settori della sua base elettorale che oggi sembrano in preda alla delusione e allo scoramento. Come in  tutte le elezioni, riuscire a portare a votare i propri elettori è una condizione necessaria del successo. Biden ci è riuscito nel 2020 e il partito democratico ci è riuscito nelle elezioni di medio termine del 2018 e del 2022. Oggi non è chiaro se ci riuscirà a novembre di questo anno.

    Trump dunque è in vantaggio ma per Biden esiste un sentiero percorribile per vincere. È un sentiero stretto, ma esiste. Ed è lo stesso Trump a tenerlo aperto. Abbiamo parlato della impopolarità di Biden come un fattore che gioca a favore di Trump ma è vero anche che l’impopolarità di Trump gioca a favore di Biden. A novembre gli elettori americani si troveranno a scegliere tra due candidati che la maggioranza di loro giudica sgraditi.

    Nonostante i dati che abbiamo mostrato Trump resta un candidato debole. Non si spiega altrimenti che il suo gradimento sia così basso.  La competizione quindi non è tra un candidato debole, Biden, e un candidato forte, Trump. È tra due candidati deboli. Le loro rispettive debolezze saranno il tema centrale della campagna elettorale. Si vedrà chi dei due riuscirà a sfruttarle meglio negli stati che contano. Perché alla fine, come abbiamo detto più volte, è assai probabile che l’elezione verrà decisa ancora una volta in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania.

    Il Michigan in particolare potrebbe essere decisivo. Il Michigan è il nuovo Ohio. In questo stato, oltre al problema di una classe operaia sempre più spostata a destra, Biden ha davanti a sé un altro problema, quello dei 200.000 arabi palestinesi che giudicano molto negativamente la sua politica sulla questione di Gaza. Lo considerano troppo filo-israeliano. Senza questi voti Biden non può vincere in Michigan e se non vince lì dovrebbe vincere in Georgia oppure in più d’uno tra gli altri stati ballerini dell’Ovest e del Sud. E questa sembra oggi una impresa ancora più difficile.

    Chiudiamo con due osservazioni che completano il quadro di queste elezioni. La prima ha a che vedere con i candidati terzi, quelli che noi chiamiamo terzi poli. In questa elezione, come in quella del 2016, ci saranno altri candidati con un certo appeal oltre a Trump e Biden. Allora  raccolsero più di sette milioni di voti che quattro anni dopo diventarono meno di tre. È molto probabile che in queste elezioni proprio lo scarso gradimento dei candidati dei due partiti storici spinga una quota consistente di elettori a votare per uno dei candidati minori. Tra questi spicca il nome di  Robert F. Kennedy Jr., figlio del fratello di John. Dopo aver tentato di sfidare Biden nelle primarie del partito democratico ha deciso di puntare alla Casa Bianca come indipendente. Lui e gli altri candidati terzi rappresentano un ulteriore fattore di incertezza in questa tornata elettorale. Negli stati chiave potrebbero fare la differenza. Non è ancora chiaro a favore di chi.

    L’ultima considerazione riguarda le elezioni del Congresso. Oggi come è noto Camera e Senato hanno maggioranze diverse: la Camera repubblicana, il Senato democratico. A novembre verranno rinnovati l’intera Camera e un terzo del Senato. A rischiare di più sono i democratici al Senato perché sono numerosi i seggi in cui la partita è molto incerta. Uno di questi seggi, quello del senatore Manchin del West Virginia, può già considerarsi perso. E con ciò anche vincessero tutti i loro attuali seggi finirebbe 50 a 50 e il voto decisivo sarebbe quello del vice-presidente. Per questo uno degli scenari possibili è che in caso di vittoria di Trump entrambi i rami del Congresso siano controllati dai repubblicani. Si verificherebbe il caso, diventato raro nella politica americana, di un governo unificato: lo stesso partito che controlla presidenza e congresso. A chi legge il compito di immaginare le conseguenze sul piano della politica interna americana e su quello della politica internazionale.

  • Nasce “Telescope”, inaugurato con la conferenza di Roberto D’Alimonte su Donald Trump

    Il 2024 è l’anno più elettorale di sempre, con oltre metà della popolazione mondiale chiamata a votare. Un appuntamento eccezionale, che l’Università Luiss Guido Carli ha scelto di non mancare creando un apposito progetto editoriale di divulgazione scientifica. Telescope, animato dalle analisi e ricerche del Centro Italiano Studi Elettorali (CISE) diretto da Lorenzo De Sio, è stato inaugurato ieri al Campus Luiss in occasione dell’incontro “Perché Trump può vincere ancora. I numeri, le spiegazioni, le prospettive e le lezioni per l’Italia e per l’Europa

    https://www.youtube.com/watch?v=XpbxM6MxtFA

    Indice del video: Introduzione e saluti istituzionali (Gianni Riotta, Luigi Gubitosi e Andrea Prencipe); Presentazione Telescope (Lorenzo De Sio); Perché Trump può vincere ancora (Roberto D'Alimonte); Dibattito (Daniela Giannetti, Lorenzo De Sio, Sergio Fabbrini)

    A illustrare i motivi per cui, se si votasse oggi, Donald Trump tornerebbe alla Casa Bianca, Roberto D’Alimonte, fondatore e già direttore del CISE.  Una presentazione supportata da elaborazioni, mappe e infografiche (tra poche ore tutto online, qui sul sito CISE, nella prima puntata di Telescope) che ha rivelato gli Stati chiave in cui si gioca la partita, i possibili equilibri del futuro Congresso, per concludersi con un’analisi dei profondi cambiamenti in corso nella società americana.

    Hanno partecipato alla discussione, con uno sguardo alle implicazioni per l’Italia e l’Europa, anche Lorenzo De Sio, Daniela Giannetti (Università di Bologna, e Sergio Fabbrini, Direttore del Dipartimento di Scienze Politiche Luiss, con la moderazione di  Gianni Riotta, Direttore del Master in Giornalismo e Comunicazione Multimediale della Luiss

    E tra poche ore, qui sul sito CISE (e sui social), tutti i contenuti della presentazione di Roberto D'Alimonte (anche con infografiche interattive esclusive) saranno online nella prima puntata di Telescope: la politica che non vedi a occhio nudo

    Telescope è un progetto di divulgazione che racconterà le elezioni, i comportamenti di voto, la rappresentanza democratica con gli strumenti della scienza politica: analizzando i dati attraverso teorie costruite e testate su tanti altri dati di tanti paesi. E ottenendo quindi uno sguardo più distante, ma al tempo stesso più approfondito: Telescope, per l'appunto, a simboleggiare come anche la politica non si vede bene a occhio nudo, e richiede quindi strumenti specifici: anzitutto i dati, ma soprattutto le teorie con cui analizzarli, con cui distinguere i dati strutturali da quelli accidentali, il segnale dal rumore di fondo.

    Proveremo quindi a dirvi qualcosa in più che non sapevate, proveremo a darvi uno sguardo diverso su argomenti discussi tutti i giorni. Lo faremo con dati, articoli scientifici, mappe, infografiche: con un nuovo appuntamento di approfondimento ogni due settimane sul sito CISE. E puntata dopo puntata seguiremo tre filoni: World Watch, dedicato ai più importanti appuntamenti elettorali in tutto il mondo; Italia Watch, con interpretazioni originali del sistema politico e dell’opinione pubblica italiana, anche con sondaggi esclusivi; e infine Research Watch, che presenterà in modo semplice risultati originali (e spesso inattesi) della ricerca scientifica: nel campo delle elezioni, dei comportamenti di voto, della rappresentanza democratica. Ogni due settimane, quindi, un articolo ricco di analisi da leggere, rileggere, consultare e condividere. Ma Telescope non sarà solo questo: troverete anche contenuti esclusivi sui social media, con in più tutte le attività e iniziative del CISE.

    Per ricevere direttamente tutti gli aggiornamenti di Telescope, abbonatevi alla newsletter gratuita CISE, oppure attivate le notifiche "push" cliccando sull'icona della campanella in basso a destra. Appuntamento quindi con Telescope!

Ricerca

  • Open selection for a 2-year post-doc position at CISE on social media analysis (deadline Apr 10)

    The selection is still open (until Apr 10). The figure we are looking for (details in the call for applications-see PDF below) will deal with quantitative social media analysis, also through computational methods, so that familiarity with Python and/or R (possibly including API access) is an important plus.

    The call for applications is for a two-year post-doctoral position at Luiss Rome within the CISE-run, nationally funded (PRIN) POSTGEN project - Generational gap and post-ideological politics in Italy. The position also offers interesting teaching opportunities; moreover, due to the geographically distributed nature of the project (the Luiss unit, headed by PI Lorenzo De Sio, coordinates three more units in Milan, Bologna and Pavia), applications by non-resident young scholars will be also very seriously considered.

    The project is highly innovative on several aspects, from theoretical framework to data collection and analysis, combining qualitative ethnographic interviews, questionnaire-based surveys, and social media analysis using algorithms and GenAI (see description below, or directly https://postgen.org/ ).

    Position description (from the call)

    The selected postdoctoral researcher will be in charge for specific tasks related to the project work package dedicated to social media, in terms of both data collection and quantitative analysis.

    The ideal candidate has:

    • a background in empirical social research with a quantitative approach;
    • familiarity with manual and automated collection of social media data (including access to social media APIs);
    • familiarity with quantitative analysis of social media data, both with human coding and with algorithmic (supervised and unsupervised) approaches;
    • familiarity with common data analysis software/programming languages (Stata, R, Python);
    • some record of scientific publications;
    • some previous participation to international research projects.

    The selected researcher will actively cooperate with the project team, and will be offered the possibility of a fully-fledged research experience within the POSTGEN project, including full participation to research activities and to the dissemination of the project, ranging from participation to international conferences to significant opportunities for scientific publications on international journals.

    Useful links

    Call for applications
    (legal document in Italian; includes English position description at the end)

    Application form
    (deadline: 14.00 CEST of April 10, 2024)

    POSTGEN in a nutshell:

    Background

    Recent, disruptive political change in the Western world (Brexit; Trump; challenger parties across Europe; the birth in 2018 Italy of the first “populist” government in Western Europe) has deeply challenged theories of voting behavior and party competition, leading most scholars to broad explanations based on populism and irrational publics.

    Recent comparative research (see the ICCP project; see De Sio/Lachat 2020) has shown more specific mechanisms: challenger parties thrive on an ability to mobilize conflict by leveraging issue opportunities across ideological boundaries. This reveals a de-ideologized context, where voters, relying less on traditional ideological alignments, reward innovative post-ideological platforms.

    Still, ICCP research only scratched the surface of a possible de-ideologization process, lacking processual focus (and missed the impact of the Covid crisis, potentially leading to further change).

    The POSTGEN Project

    POSTGEN fills this gap by offering – on the Italian case, lying at the forefront of disruptive political change – an in-depth analysis of the mechanisms and dynamics of possible de-ideologization. It adopts a generation-aware perspective (needed for understanding change) with emphasis on younger generations, and with innovative focus on:

    • time: tracing the (memory and) dynamics of the formation of political attitudes (at the individual, generational, and collective level) and their impact on political behavior;
    • meanings associated to different political issues, and the (lack of) overarching ideological organization thereof;
    • non-political actors and influencers, and their increasing influence in an age of crisis of epistemic authorities.

  • Luiss is hiring! Positions of interest for CISE followers

    An extensive recruitment process has been launched at Luiss University through a 'Call for Expression of Interest' involving 32 new positions for Full/Associate/Assistant Professors across various disciplines.

    The call deadline is next February 15; among the 32 positions, seven are offered within the Department of Political Science (see full list below).

    To the community of CISE readers that are interested in elections, public opinion, political behaviour and political communication, we bring to attention two positions in particular:

    Methods of Political and Social Research

    Excerpt from the call:
    "Primary attention will be given to profiles for the position of Assistant Professor, but expressions of interest from Junior Associate Professors will also be considered ... Candidates are expected to have a strong international publication record on research methods in political and social sciences, both quantitative and qualitative. Experience of survey research (including questionnaire and survey design, survey data analysis also with a multi-level perspective) and/or of experimental designs, including the use of qualitative methods in the social sciences, is appreciated."

    Sociology of Communication

    Excerpt from the call:
    "[Candidates] will be leading scholars with research and teaching experience, and a relevant record of publications and research projects ... Candidates are expected to have a strong international publication record, with a focus on the areas of digitized public spheres and datafication of political communication and political mobilization. Expertise in computational communication analysis and a research interest on digital environments and political communication are desirable."

    In light of possible future collaborations with CISE scholars, we would be especially happy of seeing applications by scholars with specific expertise on public opinion, party politics and political attitudes and behavior.

    Full list of positions advertised in the Department of Political Science:

    Associate/Full Professorships (four positions):

    - AXA Chair in Climate Change;
    - Euro-Mediterranean Studies;
    - Sociology of Communication;
    - Sociology of Migrations and Transnationalism;

    Assistant/Associate Professorships (three positions):

    - History and Culture of Islamic Countries;
    - History of Political Institutions;
    - Methods of Political and Social Research.

  • Who looks up to the Leviathan? Ideology, political trust, and support for restrictive state interventions in times of crisis

    To cite the article:

    Casiraghi, M.C.M., Curini, L., Maggini, N. and Nai, A. (2024). Who looks up to the Leviathan? Ideology, political trust, and support for restrictive state interventions in times of crisis. European Political Science Review. DOI:10.1017/S1755773923000401

    The article is open access and can be accessed here.

    Abstract

    The extent in which voters from different ideological viewpoints support state interventions to curb crises remains an outstanding conundrum, marred by conflicting evidence. In this article, we test two possible ways out from such puzzle. The role of ideology to explain support for state interventions, we argue, could be (i) conditional upon the ideological nature of the crisis itself (e.g., whether the crisis relates to conservation vs. post-materialist values), or (ii) unfolding indirectly, by moderating the role played by political trust. We present evidence from a conjoint experiment fielded in 2022 on a representative sample of 1,000 Italian citizens, in which respondents were asked whether they support specific governmental interventions to curb a crisis, described under different conditions (e.g., type of crisis, severity). Our results show that the type of crisis matters marginally – right-wing respondents were more likely to support state interventions only in the case of terrorism. More fundamentally, political trust affects the probability to support state interventions, but only for right-wing citizens.

  • Squeezing Blood from a Turnip? The Resilience of Social Democratic Governmental Power in Western Europe (1871–2022)

    To cite the article:

    Vincenzo Emanuele & Federico Trastulli (2023) Squeezing Blood from a Turnip? The Resilience of Social Democratic Governmental Power in Western Europe (1871–2022), Representation, DOI: 10.1080/00344893.2023.2292174

    The article can be accessed here, first 50 copies free of charge.

    Abstract

    In recent years, a growing body of literature has revived its interest in social democratic parties, emphasising their allegedly irreversible crisis in Western Europe. However, all such accounts focus solely on electoral results, thus neglecting governmental power, the decisive factor to realise social democratic parties’ policy goals. To address this gap, the article tests whether the decline of social democracy is confirmed in terms of governmental power, for which an index that remedies the limitations of existing measures is employed. Through comparative longitudinal analysis on 20 Western European countries and more than 600 legislatures between 1871 and 2022, the article finds that the governmental power of social democracy has remained fundamentally the same as in the golden age of class politics. In particular, in contexts of high party system fragmentation and strong radical left competition, social democratic parties have still managed to secure relevant government positions despite their declining electoral performance.


Volumi di ricerca

  • The Deinstitutionalization of Western European Party Systems

  • Conflict Mobilisation or Problem-Solving? Issue Competition in Western Europe

  • “La politica cambia, i valori restano” ripubblicato in Open Access

  • Il voto del cambiamento: le elezioni politiche del 2018

  • Cleavages, Institutions and Competition

  • Young People’s Voting Behaviour in Europe. A Comparative Perspective

  • Terremoto elettorale. Le elezioni politiche del 2013

  • Competizione e spazio politico. Le elezioni si vincono davvero al centro?

  • La politica cambia, i valori restano? Una ricerca sulla cultura politica dei cittadini toscani

  • Proporzionale se vi pare. Le elezioni politiche del 2008


Dossier CISE

  • Online il Dossier CISE “Le elezioni amministrative del 2019”

  • The European Parliament Elections of 2019 – individual chapters in PDF

  • The European Parliament Elections of 2019 – the e-book

  • “Goodbye Zona Rossa”: Online il Dossier CISE sulle elezioni comunali 2018

  • Dossier CISE “Goodbye Zona Rossa”: Scarica i singoli articoli in PDF

  • “Gli sfidanti al governo”: Online il Dossier CISE sulle elezioni del 4 marzo

  • Dossier CISE “Gli sfidanti al governo”: Scarica i singoli articoli in PDF

  • The year of challengers? The CISE e-book on issues, public opinion, and elections in 2017

  • The year of challengers? Individual PDF chapters from the CISE e-book

  • “Dall’Europa alla Sicilia”: Online il Dossier CISE su elezioni e opinione pubblica nel 2017